VITA DA........ NOMADI
“La notizia di ciò che era accaduto in Friuli ci raggiunse alla fine di un concerto, sulla strada del ritorno verso casa. Scoprimmo che il terremoto aveva raso al suolo molti paesi, tra cui Gemona dove solo qualche giorno prima avevamo suonato e dove avevamo conosciuto tante persone con le quali era nato un bel rapporto d’amicizia. Impressionati e scossi, consapevoli che molti di quei ragazzi friulani probabilmente non li avremmo più rivisti, fummo presi dalla smania di fare qualcosa per renderci utili, per dare loro anche solo un modesto aiuto. Con Augusto, accompagnato da mia moglie Ivanna, ciascuno con un’automobile, partimmo alla volta di Gemona. Lo spettacolo che ci trovammo davanti ce l’ho ancora bene impresso in mente: la fisionomia del paese era completamente cambiata, un mucchio infinito di macerie, un autentico disastro. Ritrovammo Sergio, uno dei ragazzi che s’erano dati da fare per organizzare il nostro concerto. Lo abbracciammo e, per cercare di fargli sentire la nostra solidarietà, gli lasciammo in regalo una delle auto. Lui aveva perso tutto e perciò considerammo che quello era il minimo che potessimo fare”.
- Che ricordo ha della gente incontrata in quei frangenti?
“Ricordo perfettamente la grande tendopoli che era stata allestita, ma il pensiero più vivo che mi è rimasto nella testa è lo spirito combattivo di chi era sopravvissuto, l’indomabile sua voglia di ripartire: gliela si leggeva negli occhi al pari dell’assenza di disperazione. Nonostante la condizione difficile in cui quelle persone si erano venute a trovare, facevano a gara per invitarci nelle tende a mangiare e a bere con loro”.
- Imparaste così a conoscere un po’ più a fondo i friulani?
“Capimmo che si trattava di un popolo forte, un popolo dai valori antichi, di gente laboriosa e poco propensa a piangersi addosso. I friulani assomigliano in ciò a noi emiliani: sarà forse questo ad avere favorito la bella sintonia che hanno con i Nomadi”.
- Si è mai sentito un po’ friulano?
“Ho provato questa sensazione nel ’92 quando, dopo la morte di Dante e Augusto, ho dovuto cercare la forza per continuare, assumendomi per intero responsabilità che, per molto tempo, avevo condiviso con Ago. I primi anni della nostra attività sono stati importantissimi e difficili ma non c’è alcun dubbio che la ripartenza cui gli eventi mi hanno costretto non lo sia stata di meno. Ho dovuto pensare a un nuovo progetto perché vivere del passato non sarebbe bastato a ottenere le conferme e le soddisfazioni che sono arrivate nelle ultime stagioni”.
- A distanza di quattordici anni sente di avere vinto la sua sfida con il destino?
“Più vado avanti e più mi accorgo che la scelta operata è stata giustissima. Ho avuto la fortuna d’incontrare le persone giuste: il gruppo attualmente è formato da ragazzi meravigliosi che credono in ciò che fanno e lo amano profondamente, cosa assolutamente indispensabile per andare avanti e dare continuità alla storia dei Nomadi. Mi sto accorgendo poi che la gente non ha mai amato Augusto tanto quanto in questi ultimi anni”.
- E’ cambiato da un po’ il rapporto con i mass media, un tempo meno propensi a parlare di voi. Come si spiega questo diverso atteggiamento nei vostri confronti?
“Per lungo tempo siamo stati considerati musicisti e autori ‘scomodi’, non essendoci mai voluti adeguare a un certo sistema, non avendo mai voluto farne parte. Anzi direi che neppure ora ne siamo parte”.
- E quindi?
“Il fatto è che, davanti a una realtà come la nostra, sostenuta da risultati invidiabili in termini di vendite e di popolarità, sarebbe impresa ardua ignorare il ‘fenomeno’ Nomadi, fare finta che non esistessimo. Negli ultimi sei anni abbiamo dato una tale consistenza al nostro successo che è praticamente impossibile non accorgersene. Così ai Nomadi, ora, si è disposti a dare visibilità, a concedere passaggi televisivi. Che dire? Ce ne hanno messo di tempo ma pare che finalmente in molti abbiano compreso il valore della nostra ultraquarantennale carriera”.
- Come si collocano i Nomadi nell’attuale panorama musicale italiano?
“Come una realtà assai radicata: noi di dischi ne vendiamo. E parecchi!”.
- Così, se nel ’72 qualcuno vi negò Festivalbar, oggi altri v’invitano a Sanremo…
“Ci siamo fatti vedere dai più giovani, quelli che di noi non conoscono tutta la storia e ci siamo pure piazzati bene”.
- Lo avete fatto, ancora una volta, con una canzone che affronta una tematica inerente il sociale: ci spiega l’origine di questo vostro orientamento artistico?
“Quando si presentò l’occasione di fare musica scegliemmo di parlare della quotidianità e di tutto quanto è a essa connaturato. Un’idea che si è rivelata vincente e che non sconfesseremo mai”.
- Che cosa vi ha aiutato a vincere la sfida?
“Il fatto di essere credibili, di avere la faccia giusta per cantare quello che avevamo scelto”.
- Ci sono canzoni che sono diventate un inno come “Io vagabondo”: ve lo aspettavate?
“Si tratta di una canzone che, purtroppo, non abbiamo scritto noi, ma che ci è subito piaciuta. In ogni caso, io non me lo immaginavo neppure lontanamente il riscontro che ha ottenuto, quello che è poi diventata”.
- Come trova l’attuale panorama musicale italiano?
- C’è un pericolo in cui possono incappare i giovani che sognano un futuro nella musica?
“Sottovalutare molti aspetti di questo lavoro come il sacrificio, l’impegno e la serietà. La colpa è anche della tv, che trasmette loro un messaggio distorto, stimolando interesse a questo mestiere solo perché dà fama, soldi e donne. Quelli della mia generazione suonavano per divertimento e passione. Io stesso finché mi diverto non smetterò mai di suonare, in caso contrario…”.
- Come ha fatto a mantenersi così in forma nonostante una vita di musicista “nomade”?
“Il mio segreto è semplice: lavoro divertendomi e non rinuncio mai a volermi bene”.
- Che significa volersi bene?
“Badare al benessere fisico, evitare stravizi e strapazzi. Io non bevo mai superalcolici, non fumo, mi concedo solo pochi caffé. E, se ce la faccio, dopo un concerto, cerco di tornare a casa e dormire nel mio letto”.
- Il rilevante numero di concerti a ogni stagione rappresenta una costante del suo gruppo. Farlo da oltre quarant’anni ha comportato dei problemi in ambito familiare?
“Mi sono sposato giovanissimo e la mia fortuna è stata grande nell’incontrare una persona eccezionale come mia moglie Ivanna. Mi ha aiutato tanto, mi ha sopportato ed è stata principalmente lei ad allevare i nostri figli”.
- I suoi ragazzi non le hanno mai rinfacciato le sue assenze?
“Mai, neanche un minimo rimprovero. Davide, che è nato nel ’66, si può dire che la storia dei Nomadi l’ha vissuta dal principio. Ma neppure a Elena, classe ’75, ho mai dovuto giustificare nulla. Nessuno di loro ha minimamente risentito della mia mancanza. Hanno recepito il messaggio nomade e hanno sempre dimostrato di essere orgogliosi di quello che ha fatto il loro padre”.
- Ha viaggiato moltissimo incontrando personaggi importanti come il Dalai Lama, si è impegnato in operazioni umanitarie a favore delle popolazioni povere del mondo coinvolgendo in questo anche molti suoi fans: come si sente umanamente oggi Beppe Carletti?
“Ricco, migliorato in consapevolezza e responsabilità. Ho imparato ad apprezzare la vita per quello che mi dà. Ho imparato tanto, ma ho la speranza di continuare a farlo ancora a lungo”.
- Si considera un ottimista?
“Sempre stato positivo. Ottimista? Per forza altrimenti mica sarei arrivato fin qua!”.
E' stato tra i fondatori dei Nomadi, gruppo che ha già festeggiato i quattro decenni di carriera. Carletti li ha percorsi tutti, ed è quindi la persona più adatta per parlare del gruppo la cui attività è tutt'ora intensa, con incisioni discografiche che sfondano muri di vendita impensabili ai nostri giorni e tanti concerti, con il tutto esaurito non solo di presenze ma anche di entusiasmo. Tutto ciò nonostante la prematura scomparsa del cantante Augusto Daolio più di dieci anni fa. La stagione 2004/2005 dei Nomadi vuol dire tanti concerti, come sempre, e l'album Corpo Estraneo (Atlantic/Warner) già entrato a pieno diritto tra i successi del gruppo.
Quindi nuovo album e nuovo tour per un disco dove riteniamo di aver messo molta energia e molto rock (i Nomadi si considerano un gruppo rock e non è un vanto). Solo un sordo non lo può sentire: può piacere o no, ma poi è la stessa energia che poi portiamo sul palco. Sarebbe stato facile restare sulla stessa onda di un precedente disco di sucesso, ma non è nel nostro stile. I Nomadi devono ogni volta pensare a esprimere qualcosa di nuovo e avere il coraggio di cambiare, di voltare pagina. Certo abbiamo inciso 280 canzoni e qualche somiglianza ci può essere, però ci stiamo molto attenti».
Ci sono molte firme nei brani del disco...«Sì, in Corpo Estraneo ci sono autori che non sono sempre i componenti del gruppo Innanzitutto ci sono tre donne e lo dico con un certo orgoglio. Perché di solito si pensa sempre che la donna non abbia mai la cattiveria e la grinta di raccontare una storia e scrivere un testo. Poi ci sono altri autori giovani di cui abbiamo accolto le proposte tra le tante che ci arrivano perché siamo sempre aperti a questi contributi. Parlando brutalmente, non compriamo le canzoni ad altri, ma gliele cambiamo, ce la cuciamo addosso e firmiamo anche noi (glielo diciamo prima e vediamo dove poter intervenire). Ma l'idea originale appare sempre, anche perché non vogliamo dimostrare che facciamo tutto quanto. Quando fai tanti concerti in un anno non è possibile mettersi a scrivere 11 canzoni nuove. Se uno ha del materiale da elaborare diventa tutto più facile.
E il fatto che tanti di questi autori non sono professionisti (anche se gli auguriamo sempre di diventare tali e che qualche talento venga riconosciuto), contribuisce alla freschezza della proposta che è dettata da ciò che uno ha dentro in un particolare momento e non è costruita a tavolino. E' facile anche per noi lavorare così».L'artwork sembra quello della "Settimana Enigmistica".«Avevamo chiesto la liberatoria per usare i loro caratteri, ma non l'abbiamo avuta. A lavorare sulla copertina (con cruciverba, rebus, barzellette) e sul libretto sono stati i ragazzi del liceo artistico Boccioni di Milano seguiti dai loro professori».La domanda è purtroppo banale, ma 40 anni dopo trovate sempre nuovi stimoli?
Lo chiedo perché magari grandi personaggi continuano ad andare sul palco quando sarebbe bene che si ritirino, mentre voi siete sempre in piena forma.«Penso che uno dei nostri segreti sia quello nel suonare tantissimo e lo facciamo ogni anno. Sembrerà strano, ma uno che ama suonare è bene che stia più possibile sul palco a confrontarsi con il pubblico. Se facessimo meno date, secondo me, non avremmo la stessa carica. Poi è il pubblico stesso che trasmette energia.
Con 2000/3000 persone davanti è un continuo scambio di emozioni, un dare e un ricevere».Molti della vostra generazione si sono in pratica seduti o persi per strada. Voi come avete fatto?«Noi non siamo mai stati un gruppo da copertina: in tutto l'arco della mia storia sarò stato 10 volte in prima serata televisiva. Non siamo un gruppo di moda. Forse tutto questo ci fa andare avanti, non tanto per cercare la copertina del settimanale, ma per non deludere il nostro pubblico che non ci ha mai abbandonato, anzi è cresciuto negli anni. Un'altra cosa importante è quella che noi continuiamo a vivere nei nostri paesi frequentando sempre la stessa gente. Possibilmente preferiamo tronare a casa dopo un concerto piuttosto che rimanere fuori, abbiamo tutti voglia di casa e di famiglia, di fare una vita normale.
Quando sei sul palco dai sfogo alla tua passione che poi è diventata la tua professione, ma abbiamo preferito non fare base in città come Milano o Roma dove ci sono i media e i discografici, ma dove rischi anche di bruciarti». E' sempre stato così?«Io vengo dalla balera, perché nel '62/'63 si suonava in questi posti. Da lì ho preso l'abitudine di stare in mezzo alla gente quattro ore, dalle 21 all'1 di notte, ed è un concetto che ho trasmesso anche agli altri in tutti questi anni. Ci divertivamo, facevamo quattro canzoni poi parlavamo con il pubblico e si ricominciava. E questo succede anche ora: dopo un po' ci fermiamo, leggiamo qualche bigliettino che ci manda il pubblico e così via.
Così ci divertiamo ancora a stare sul palco. Qualche volta è comprensibile che sei stanco, ma quando inizi a suonare passa tutto. Vedi l'affetto della gente che dà la carica e l'energia di cui parlavamo prima. E' bello suonare in uno stadio con 40mila persone, ma trovo più bello suonare con meno pubblico e guardarli da vicino (a un metro e mezzo) con tutto il loro entusiasmo, che vivono il concerto e che cantano. Quando facciamo la prova del suono, diamo la possibiltà al pubblico (a meno che non ci siano problemi di altro tipo) di assistervi. Spesso ci sono persone che vengono nel primo pomeriggio per prendere i posti più vicini, perché penalizzarli o cacciarli via? Così vedono anche come nasce un concerto e tutto il lavoro che viene fatto prima».Come un rito...«Certo, capita due volte in un anno che sali sul palco all’ultimo momento perché magari hai fatto una presentazione o perché per la strada c’era confusione.
Di solito però arriviamo verso le 18 e iniziamo il nostro lavoro. A fine concerto ti fermi un po’ a fare quattro chiacchiere o una foto con la gente».La tipologia di pubblico e, soprattutto, l’età?«Quando abbiamo fatto il concerto "zero" per il nuovo tour in un paese della provincia di Mantova, il maresciallo dei carabinieri del posto credeva che sarebbero arrivati in tanti della sua generazione, quella dei 50enni. Poi hanno aperto le porte, c'erano tantissimi giovani ed è rimasto sorpreso. Questo per dire che il nostro pubblico è trasversale. Se ci fossero solo quelli della mia generazione, beh, non saremo qui a parlare dei nostri 40 anni di carriera».Poi c'è anche un'altra abitudine, quella del regalo sul palco.«Sì, ci sono sempre i regali per noi, ma che sono sempre legati a progetti di solidarietà». Su questo versante siete molto attivi, ma al contrario di tanti colleghi non ne parlate quasi mai.«Se facciamo un concerto e in quel posto c'è un'associazione che porta avanti un progetto, parliamo di quello che fa l'associazione, non di noi. Non avrebbe senso. Non puoi parlarti addosso e dire come siamo bravi, abbiamo fatto questo, eccetera.
Altrimenti lo faresti solo per tornaconto d'immagine: bisogna farlo in modo spontaneo così come succede per milioni di persone in Italia che fanno volontariato». Parlavamo di 280 canzoni, è difficile fare una scaletta del concerto dei Nomadi?«E' vero, la studiamo in base a una rosa di 80/90 canzoni sulle tante che abbiamo fatto (c’è gente che non ha di questi problemi e deve arrabattarsi per raggiungere le due ore di repertorio). Per questo tour ne abbiamo discusso insieme addirittura per quattro ore, ragionando su mille cose, e grazie alla "data zero" abbiamo visto che funziona per la maggior parte del concerto. Poi va calcolato che facciamo almeno 9 degli 11 brani che compongono l'ultimo disco e che è nostra tradizione accontentare alcune richieste del pubblico che ci arrivano sul palco con bigliettini. E' uno stimolo importante che ci viene dalla gente, anche perché generalmente non dobbiamo provare dei mesi per fare canzoni che abbiamo stabilmente in repertorio e quindi possiamo accontentare il pubblico senza scompaginare troppo la scaletta».Ricorda la prima volta da Nomadi?«Mi piace raccontare questo episodio che mi ha ricordato il chitarrista Dodi Battaglia dei Pooh: eravamo nel 1968 a Riccione e lui suonava in un complesso che faceva ballare la gente.
Battaglia rimase impressionato, e me lo ha detto dopo tanti anni, del fatto che suonavamo prima di loro nonostante fossimo il gruppo di attrazione. Teoricamente erano loro, come gruppo base, a dover aprire la serata. Me lo fece notare nel 1992, quindi mi ha colpito il fatto che si fosse ricordato di questa circostanza. Ma mi ricordo la vera prima volta da attrazione che risale al 1966, con il successo di Non ci potete giudicare. Fu in quell'anno (a maggio) che smettemmo di essere un pubblico che faceva ballare la gente. Poi a giugno arrivò il Cantagiro, "rompendo" la serata dove la gente era venuta per scatenarsi e divertirsi mentre con noi invece stava ad ascoltare. Fu una grande emozione la prima serata a Biella di quell'edizione: abituati a suonare in balere con 600/700 persone diedi un'occhiata al pubblico e mi accorsi che avevo davanti uno stadio pieno. Eravamo un po’ spaesati, ma il Cantagiro ti permetteva di andare a casa della gente, a differenza di Sanremo, aprendo a tanti gruppi».Avevate un modello estero come capitava a molte formazioni di casa nostra?«Erano gli Animals, sia vocalmente per Augusto Daolio, sia da un punto di vista strutturale per noi.
Poi non abbiamo fatto l'imitazione degli Animals (ci piacevano anche i Rolling Stones), ma comunque ci ispiravamo a loro. E’ normale che agli inizi di carriera succeda». A Reggio Emilia ogni anno viene fatto un tributo ad Augusto, che caratteristiche ha?«Penso che siamo il gruppo che abbia più cover band sparse in Italia. Ne abbiamo censite ufficialmente una cinquantina, ma penso che tocchiamo le 80. Poi ci sono 170 fan club sparsi dappertutto, che puntualmente organizzano manifestazioni aprendo a gruppi giovani. I vincitori poi vengono a suonare da noi, diamo loro il grande palco. E’ una manifestazione che esiste dal 1993. Un anno abbiamo fatto addittura un disco che è stato stampato dalla Cgd con 11 gruppi. Quindi alle formazioni emergenti vogliamo dare ampio spazio. Una cosa importante riguarda i fan club, siamo contenti che nascano, ma per aver il nostro assenso c’è una sola condizione: devono fare beneficenza. A favore di chi non importa, ma si devono impegnare in azioni di solidarietà». E i rapporti con le case discografiche come sono?«Siamo stati fortunati perché nessuno ci ha mai detto: 'o fate così o andate a casa'. Inoltre dal 1998 ci autoproduciamo, un altro modo per continuare a fare il nostro lavoro al meglio e divertirci ancora».
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